Artiste del ʼ900

Nella lettura critica dell’arte del Novecento Dora Bassi ha colto la tensione tra arte e vita, tra sessualità e autonomia espressiva in figure di artiste cui ha dedicato la sua ricerca. Conferenze, corsi, seminari e alcuni articoli sono centrati sul problema del rapporto tra arte e identità di genere.

CHARLOTTE SALOMON
(Berlino 1917- Auschwitz 1943)

D. BASSI, Charlotte, in “LAPIS. Percorsi della riflessione femminile”, n.11, marzo 1991

“Seguitemi, prego, vi faccio strada”. Precedute da un funzionario riservato e gentile ci calammo nei sotterranei del Museo Ebraico di Amsterdam. Là viene custodita gelosamente una delle opere più complesse e straordinarie della storia dell’arte moderna: Leben oder Theater? Racconto autobiografico per immagini al quale Charlotte Salomon ha affidato la propria sopravvivenza e forse l’immortalità. Protezione rispettosa e solerte quella del Museo, ma anche relegazione in un silenzio fin troppo prolungato, per cui oggi ben pochi conoscono la figura di questa artista ebrea, morta giovanissima in un campo di sterminio nazista, ma tanto fiera, determinata e conscia della propria forza espressiva da consegnare alla storia la sua storia come fosse una preziosa cellula vivente.
“Ciò che Van Gogh fece quando era più in là con gli anni, quella pennellata di impensabile luminosità che sfortunatamente venne marchiata come patologica, io l’ho ottenuto ora…”.
Le pulsioni che stanno a monte di ogni creazione artistica appaiono in lei concentrate a imporre l’urgenza di quest’opera: introspezione lungo le tortuose strade della memoria, rievocazione in presa diretta di ambienti e atmosfere in cui si era trovata immersa, messa in forma di un concetto estremamente moderno e coraggioso dell’arte, saldatura organica tra arte e vita e infine grido di vittoria per avere sconfitto l’annientamento. Tutto questo venne dipinto e scritto in 860 fogli organizzati con tecniche espressive straordinarie, senza esitazioni né ripensamenti, con icasticità spettacolare. Un percorso narrativo composto da parole, immagini, indicazioni musicali destinato a un utopico palcoscenico.
L’intera opera è conservata in armadietti metallici e in custodie sicure, contrassegnata da numeri, ordinata per serie accuratamente rispettose del progetto originale, ma per molte ragioni congelata nell’esilio dell’attesa.
Charlotte non voleva questo. Nel consegnare il suo lavoro al medico di Villefranche-sur-Mer, dottor Moridis disse: “Ne abbia cura. Questa è tutta la mia vita.” Tra i fogli aveva introdotto raccomandazioni a conservare intatte le numerazioni, a non scompaginare i cicli narrativi. Evidentemente doppio era lo scopo: ritrovare se stessa dando un significato alla sua esperienza di vita, che prevedeva breve,e donarsi agli altri con un messaggio che andasse oltre il suo tempo.

“Non ho mi dimenticato che amo e tre volte approvo la vita, e per viverla totalmente occorre accettare anche il suo rovescio, il dolore e la morte che ne fanno parte”.
Per la verità “Vita? O Teatro?”, un corpus di 1325 pezzi, comprendente, oltre al nucleo narrativo, fogli sciolti, annotazioni, schemi compositivi, venne presentato al pubblico più volte: ad Amsterdam all’interno del Museo stesso ; in alcune città tedesche (1965-67);a Tel Aviv, Locarno, Berlino. Dopo che “Vita?O Teatro?” divenne proprietà del Museo Ebraico ne venne fatto un documentario e nell’anno in cui a New York uscì un’ampia monografia dell’artista (Wiking Press e Gary Schwartz,1981) il regista Franz Weisz produsse un film ispirato a Charlotte. Nel 1986 l’Accademia di Belle Arti e la Scuole superiore d’Arte di Berlino dedicarono a Charlotte una mostra e un libro (ed. Arsenal,1986).Nel 1988 una selezione di tempere fu esposta a Tokio e nello stesso anno il Comitato Friulano D.A.R.S. (donna-arte-ricerca-sperimentazione) allestì per lei una sezione documentaria all’interno della mostra “Guerra:immagini tra mito e storia” (Udine-Museo della Città).
Malgrado queste occasioni e la disponibilità del Museo Ebraico, uno studio approfondito su questa eccezionale artista deve ancora essere fatto. Le ragioni di questo ritardo? Proviamo a capirle. Innanzi tutto, entrando in un museo di storia, Charlotte venne assorbita da un contesto documentario sull’ebraismo e la sua voce, malgrado la cautela dei curatori, rischiò di venire confusa con quella di milioni di perseguitati del suo tempo.Più volte la sua figura venne assimilata a quella di Anna Frank, tanto diversa da lei per età, maturità, cultura e coscienza d’artista.
“Vita? O Teatro?” impressionava per i suoi toccanti e drammatici contenuti umani per cui la statura etica di Charlotte si sovrapponeva alla rivoluzionaria concezione dell’opera appannandone il valore.
E poi, alla base di tutto, sul fronte della critica permane forse l’antica pregiudiziale:qui si tratta di una donna, per di più giovane e senza un rilevante passato di artista, con attribuzione incerta di maestri, riconoscibili nella sua opera e in tutta la storia dell’arte una donna caposcuola non esiste davvero. Nemmeno la grande e più anziana Kate Kollowitz, come lei ebrea, berlinese,perseguitata politica, espulsa dall’Accademia, può considerarsi tale. Le donne della storia dell’arte vengono usualmente collocate all’interno di scuole e tendenze a fianco di prestigiosi maestri, e Charlotte appare una figura solitaria e anomala che male regge paragoni e tanto meno dipendenze.
La struttura di “Vita? O Teatro?” non ha precedenti, è difficile e complessa. L’organismo espressivo è polisemantico, pertanto di collocazione difficoltosa. Pittura? Letteratura? Teatro? Che cos’è questo suo “Singspiel”? Nelle nostre consuetudini culturali ciò che non si può definire non esiste, ma Charlotte aveva le idee chiare e soprattutto chiaro era in lei il fondamentale concetto che esperienze d’arte e di vita devono trovare un punto di fusione totale. La sua non era una posizione programmatica di tipo intellettualistico bensì una dichiarazione di fede nella superiore funzione dell’atto creativo, inteso nella sua integrità, come facoltà umana di conservazione e produzione di strutture viventi. Il progetto si delineava nella sua mente e subito veniva gestito da una istintualità infallibile, senza vincolanti mediazioni culturali e soprattutto con tanta forza evocatrice e rigeneratrice da farle trovare istantaneamente il timbro espressivo giusto; in un linguaggio radicato nella genesi della comunicazione visiva; nel suo primario significato magico. Narrando la sua infanzia Charlotte ritrova l’occhio attento e stupefatto del bambino: assenza di prospettiva, colori smaglianti e puri, enfatizzazione del dettaglio, cose e persone messe in rapporto simbolico. Nel rievocare l’adolescenza lo sguardo si allarga e lo spazio fisico trova la sua rappresentazione. In esso vengono collocati i personaggi della sua storia, nell’essenzialità delle loro fisionomie. Più tardi, quando gli effetti e le passioni affiorano alla coscienza, inizia la rappresentazione psicologica. Compare anche l’alienazione, la paura della pazzia, e il segno si ispessisce, le forme si sfaldano, i nessi narrativi si scompongono in un magma emozionale. Lungo tutta l’opera corrono le parole fatte pittura, e sono parole vere, che emettono segnali, che raccontano, che si impongono per ciò che dicono non solo per la bellezza del tracciato. Ma, se la parola è insufficiente o inutile, sbiadisce e si stempera nelle immagini. Quando subentra il dialogo, il soliloquio, la meditazione allora Charlotte ricorre a strumenti diversi e iniziano le sequenze con cesure di tipo cinematografico ben evidenziate a rappresentare la continuità temporale di azioni e situazioni.” Si sente l’influenza di Chagall. Deve aver visto Munch.Chissà se ha conosciuto gli Espressionisti? È Matisse? È da lui che ha preso quelle campiture piatte e luminose?” Chi sfoglia il libro di Charlotte è tentato di fare queste osservazioni, di porsi queste domande. Giulia, una mia giovanissima amica, guardava tutta assorta le belle riproduzioni. Alla fine concluse: “Sembra di vedere il muro di Berlino”.
Piccola, silenziosa, sorridente, Charlotte, all’Accademia di Berlino non si faceva notare. La chiamavano “Lotte”. Avevano dimenticato il suo cognome ebreo.
“Vestiva spesso di grigio. Alla fine delle lezioni rincasava tutta sola, con le mani affondate nelle tasche. Per quanto abitasse da tutt’altra parte amava passare davanti alla stazione Zoo. Era educata, discreta, assieme matura e infantile. Era come una giornata di novembre. Noi studenti invece eravamo scostanti, era quella la moda del tempo.”
Che cosa vedevano i giovani di allora nelle gallerie d’arte?
“Ciò che i nostri insegnanti ci indicavano, noi avevamo stretto rapporto soltanto con loro. La nostra biblioteca era ricca, ma per la massima parte vi si trovavano i maestri del medioevo in lussuose edizioni recenti. Io vidi per la prima volta le opere di Max Ernst molto tempo dopo. Allora tutto quello che imparavamo stava nella nostra aula. Lottina prediligeva il grigio, i colori bassi. Se io fossi stata il suo professore l’avrei distolta da quel suo grigiore di conchiglia.”
Con quali artisti poteva essersi incontrata Charlotte? Come si può spiegare il suo modo di dipingere?
“Tenga presente che non avevamo la possibilità di accedere all’arte contemporanea. Essa era stata bandita, non si poteva vedere. Potevamo leggere autori che trovavamo ancora in biblioteca, questo sì. Io leggevo Werfel, Hesse, Barlach…” (da intervista a Barbara Wetzel, sua compagna di Accademia).
“A Berlino si discuteva, ad esempio di impressionismo?”
“No, a Berlino no. La pittura di Charlotte era istintiva, estratta dal di dentro. Nemmeno a Parigi ebbe contatto con l’arte di quegli anni. D’altra parte si fermò in quella città una settimana soltanto. A casa nostra si parlava d’arte, di letteratura, di musica e Charlotte ascoltava questi discorsi avidamente, ma poi tutto cambiò. Eravamo isolati, pensavamo soltanto a procurarci un ‘affidavit’, un passaporto per sfuggire dai lager.” (da intervista a Paula Lindberg seconda moglie del padre di Charlotte).
Aveva appena ventuno anni, Charlotte, quando la misero su un treno che l’avrebbe portata in Francia. Era sola, senza bagagli, senza passaporto. Lasciava dietro di sé tutto quello che amava; Paula, la matrigna adorata, Daberlohn, il suo primo amore.
“Du musst jetzt aufsteigen”.
Se ne stava al finestrino, imbruttita dall’ansia, spoglia di sogni, guardando verso la banchina per raccogliere la struggente, ultima immagine dell’uomo che contava tanto per lei, quel Doberlohn, metà genio e metà istrione, che l’aveva spinta alla pittura ipnotizzandola con quegli occhi spiritati, inchiodandola a quel suo stretto sorriso sofferente nei frettolosi incontri per le strade di Berlino, sotto un lampione, al tavolino di un bar, negli squallidi posti che emanavano per lei bagliori di paradiso. La sua figura, che riempie tutta la parte centrale di “Vita? O Teatro?”, compare per l’ultima volta in questo addio, informe e scura contro lo sfondo sordo e fumoso della stazione.
Lui e Paulinka domineranno tutta la “Hauptteil” dell’opera. Il gioco psicologico tra i due è reso nel racconto di Charlotte in tutta la sua ambiguità. La storia è questa: lui era un maestro di musica ebreo e senza lavoro. Venne raccomandato ai Salomon da un amico comune e incominciò a frequentarli quotidianamente. Accompagnava al piano Paulinka, nota cantante d’opera che sostituì nel cuore di Charlotte la madre, morta suicida quando lei aveva appena nove anni. Daberlohn prese a idolatrare quella donna dalla personalità calma e imperiosa e lei pareva sopportarlo con indulgenza. Questo appare nel racconto. Charlotte disegna centinaia di volte quella faccia larga e pallida da interprete wagneriana, il benevolo e stretto colloquio col giovane e invadente maestro che le bacia le mani, si inginocchia davanti a lei chiamandola “Meine Madonna “. In più di cinquecento lay-out dipinti con pennellate rapide e cromaticamente sature si intrecciano, si compongono, si sciolgono le due figure in una ossessiva pantomima d’amore, in inesauribili duetti, insiste la tenace domanda di Daberlohn, si moltiplicano le reticenze di Paula. Con segno nervoso e vibrante Charlotte rappresenta il trascolorare delle emozioni cambiando impostazione cromatica e impianto compositivo, spostando di continuo il punto di vista, fino a ricorrere a quella tecnica espressiva che le è tipica: la sequenza del volto parlante o pensante ripetuto all’infinito. Lei, esile figura di contorno, appare talvolta ai margini dell’azione finché accade qualcosa. Dal foglio siglato col numero 224 ci sono soltanto lei e Daberlohn. Stagliati su di un fondo trasparente e luminoso, il sapiente accostamento di toni caldi e freddi, a confronto diretto, e sul tavolo bruno-viola sono sciorinati i disegni di Charlotte.
“Io non so che cosa lei ci veda, ma se le fa piacere glieli regalo.” Nel foglio 275 c’è l’abbraccio. Due figure raccolte in una sola linea sinuosa a cui si accompagnano scorrendo le parole dette.
“Ti prego, fermati, non voglio che tu te ne vada.”, “No, lasciami, devo andare via.”
Abbracciati sotto il lampione : una sola macchia scura su un fondo appena azzurrato.
Affiancati per le vie di Berlino: composizione obliqua e prospettiva dall’alto.
Lei che attende seduta su una panchina: una stazione, un orologio, solitudine,una lontana figura in rosso che avanza, complementari rossi e verdi.
Tanti bar, tante mani intrecciate oltre le tovaglie, tanto indugiare agli angoli delle strade.
Quando, a guerra finita, Daberlohn, che esisteva veramente e si chiamava Wolfsohn, ebbe tra le mani “Vita? O Teatro?” pianse, si prese la testa tra le mani e mormorò: “Io non sapevo… non avrei immaginato tutto questo.”
Nemmeno Paulinka aveva capito. Alcuni anni fa venne trovata e intervistata.
“Era ancora una bambina, Charlotte restò bambina a lungo, più di quanto accade ai nostri giorni”.
Lei e il marito non ebbero difficoltà ad entrare in possesso degli involti lasciati da Charlotte. Anche i quadri che aveva dipinto per Mrs. Moore non avevano agli occhi di chi li possedeva alcuna importanza.
“Se i tempi fossero stati normali Charlotte avrebbe certamente fatto altre cose. Lei si immerse nel passato perché il presente le pareva orrendo né c’era futuro. Per questo produsse tanto. Anche un bambino quando disegna è produttivo, egli esprime se stesso.”
“Che cosa significa per lei “Vita? O Teatro?”
“Teatro significa ciò che sembra, ciò che tu vuoi sembrare. Alla fine di ogni racconto resta la domanda: è stato veramente così o me lo sono immaginato? La storia d’amore con Daberlohn era semplicemente un desiderio, una fantasia. Ciò che raccontò dopo, quando era più matura, era ciò che lei desiderava fosse stato.”
Ma poi Paula si distrasse e prese a raccontare di sé e dei suoi antichi trionfi sul palcoscenico. Daberlohn appare ancora al foglio 442. Come nei momenti di maggior fusione le due figure sono compenetrate e il fondo è chiaro. Qui la figura maschile eretta assorbe la piccola sagoma ai suoi piedi. Un alone d’ombra violetta li avvolge.
“Non dimenticare mai che io credo in te.” È l’ultimo messaggio.
“Era molto difficile entrare in contatto con lei. Era taciturna, non disposta ad aprire l’animo, ad abbattere il muro che aveva eretto intorno a sé.”
Daberlohn aveva intuito il grande talento della ragazza.
“Come poteva una persona tanto giovane dipingere un quadro tanto pieno di disperazione, tristezza,rassegnazione e morte? Nel sonno Charlotte era tormentata da incubi di morte. Sognava di essere una larva che sta per diventare farfalla. Sognava di librarsi in aria incatenata. Io la incitavo a trovare qualcosa d’altro, un abbraccio con la vita.” (da una lettera di Daberlohn –Wolfsohn). Daberlohn voleva sottomettere l’anima di lei alla sua. Lui, un dio potente, che dà la vita, lei giovane Adamo non ancora nato.
Dal foglio 459 la partenza e l’esilio, con intervalli felici di azzurri, verdi, arancione. Tovaglie bianche al sole ma anche bianchi letti di ospedale, bianche vasche da bagno, la bianca figura del nonno, la bianca camicia da notte della nonna che si aggira disperata cercando la morte. Charlotte stringe in pennellate dure e veloci l’orrendo ricordo di quel suicidio finchè le sconnesse parole della sua mente sconvolta traboccano e travolgono le immagini. Alla tentazione di darsi lei stessa alla morte fanno barriera le ultime parole di Daberlohn: “Non ti dimenticare che io credo in te”.
Siamo all’epilogo della vita e della storia di Charlotte. Parole e immagini urgono e vengono tracciate con velocità. Scompaiono i volti ormai tante volte indagati, le atmosfere straripano infiammandosi, restano le parole. Questo avvenne nel luglio 1940, sulla via che porta a una piccola città tra i Pirenei e Nizza, dopo che tutto il mondo cade a pezzi. Poi ci fu “Vita o Teatro?”, spettacolo a colori con musica. Charlotte ha finito. Guarda verso il mare e uno squarcio di luce strappa l’azzurro ondo del cielo. Sulle spalle nude porta scritto il titolo dell’opera compiuta.

D.BASSI, Charlotte, in “Sulle ali della Shekhinah. Berlino 1917, Charlotte Salomon, Auschwitz 1943”, ed. a cura del comune di Romans d’Isonzo, 1998; id, ed. a cura del Comune di Carpi, Museo Monumento al Deportato

Charlotte silenziosamente attende nell’asettico caveau del Joods Historish Museum, amorosamente protetta e catalogata. A detta di chi l’ha conosciuta non ebbe grandi ambizioni, eccetto quella di vivere. Con sorridente pacatezza i custodi della sua opera non mostrano alcuna fretta di consegnarla al mondo. “Non vorremmo che Charlotte venisse fraintesa e strumentalizzata”, ci spiega con cauta gentilezza il dottor Nystadt che, assieme a Renèe Waale, ha ordinato la collezione. Tutto ciò che lei ha prodotto è stato raccolto in un esauriente catalogo (Charlotte, ed Gary Schwartz, New York, 1981) su iniziativa del museo stesso. Nel 1986, a Berlino è stato pubblicato un libro (Charlotte Salomon, ed. Arsenal) in cui appaiono interviste fatte a persone che l’hanno conosciuta personalmente, si parla dell’ambiente culturale in cui si è formata e, particolare prezioso, si rendono noti gli elenchi di studenti e professori delle scuole superiori dell’Accademia e del Conservatorio di Berlino che si erano ritirati per la loro appartenenza alla razza ebraica. Ed è tutto il fiore del movimento espressionista. Hofer, Schlemmer, Barlach, Dix, Pechstein, Kirchner, Schmidt-Rotluff, Thomas Mann, Franz Werfel, Arnold Schonberg…
Le persone intervistate, le stesse compagne di corso che le furono più vicine, si sorprendono quasi dell’interesse che suscita oggi una mite ragazza, morta già 50 anni fa. In Israele, nel 1987, è stata messa in scena la sua pièce “Vita? O Teatro?”. In ambiente ebraico colto la sua figura è nota, ma per collezionisti e storici dell’arte di altre aree il suo nome a nulla si collega. Io l’ho conosciuta per caso, per uno scroscio di pioggia estiva da cui bisognava ripararsi, ero assieme a una giovane amica italiana che porta con orgoglio il mitico nome Saskja. Entrammo così nel Joods Historisch Museum di Amsterdam, una vecchia sinagoga restaurata e là, seguendo il filo della storia di antichi gruppi ebraici della città, della loro civiltà, delle ricchezze accumulate e perdute, della disperazione, dello sterminio, arrivamo in una stanzetta al pian terreno dove, in una serie di immagini di impressionante espressività, Charlotte raccontava tutta la sua vita. Si trattava di un filone narrativo e non dell’opera intera, come seppi subito dopo. L’anno seguente tornai ad Amsterdam, ebbi contatti con il museo e accesso alla collezione. Ne fui emozionata.
Su fogli di comune carta da disegno contrassegnati in basso dalla sigla “C.S.” e portanti ancora la traccia delle puntine si svolge una specie di diario figurato come mai ne ho visti in vita mia. In esso, con sapienza e densità narrativa, intrecciando parole e immagini, Charlotte aveva deposto il senso e la memoria della propria esistenza. Questo era tanto evidente che isolare gli elementi stilistici, citare Munch, Chagall, Schmidt_Rotluff, mi parve operazione squallida e irriverente. Pur attingendo, con una specie di grandiosa noncuranza alla civiltà figurativa del suo tempo, ne scardinava i nessi, spregiava ogni convenzione, usava linguaggi compositi perché il suo solo scopo era l’intensità della comunicazione.
Non c’è regola apparente nel procedere del racconto. L’autrice ricorre all’accumulo contemporaneo di eventi come già fecero i quattrocentisti e, per narrazione popolare di grande efficacia, pittori come Lorenzo Lotto; altre volte, quando l’intimismo e “l’io narrante” prevalgono, evita riferimenti ambientali e prospettici, condensando il racconto in una sola immagine strappata da qualunque contesto. Il proptagomista è, di volta in volta, lei stessa, la nonna, Paulinka, quel Daberlohn che tanto contò nella sua storia. Altre volte l’evento prevarica e allora, come avviene nella riproduzione dei bandi nazisti che ordinano la caccia all’ebreo, rimane il foglio con la sola organizzazione visiva di parole.
Charlotte distribuisce la parola come fa con il segno e il colore, lasciando intatta la portat dei suoi significati. Di tutto questo danno preziosa testimonianza i lay-out che precedono impaginazione e scelte cromatiche. Salomon, vivendo in ambiente di musicisti, conosce perfettamente gli schemi strutturali della musica dodecafonica e, in maniera analoga, imposta i blocchi e i ritmi narrativi. Ciò che sta dietro l’opera è, per ora, semplice congettura, perché “Vita? O Teatro?” sembra emergere dal nulla, protetto da una fascia in penombra.
Il narrare la propria vita di cui sembra presagire la brevità, appare in lei necessità improrogabile e l’impiego di tecniche polisemantiche non ci sembra certo vezzo culturale, né può essere trascurata la crescente concitazione nel segno che accompagna il precipitare degli eventi (la deportazione e il rilascio del padre, l’addio di Daberlohn, il riparo sulla Costa Azzurra, il tentato suicidio e la morte della nonna, le rivelazioni del nonno, la paura della follia suicida, l’invocazione di vita e, infine, la conclusione dell’opera tatuata sulla schiena di lei, viva, in riva al mare).
Tutto ciò accade tra il 1939 e il 1942.
“Era una giovane gentile e allegra” racconta madame S. che la ospitò a Villefranche –sur-Mer.
“Charlotte era riservata, educata. La ricordo in una giornata di novembre,vestiva di grigio, era matura e infantile allo stesso tempo”, dice Barbara P., sua compagna di Accademia.
“Quando cercavo di aprire un varco nel muro che Lotte mi opponeva, mi lanciava un’occhiata che infiammava di più il mio impegno verso di lei, e allora mi comportavo come un pagliaccio”, scrive Daberlohn ad un’amica comune.
In modo diverso Charlotte vive il rapporto con l’intellettuale tormentato ed amaro che frequuenta la sua famiglia. L’ossessione del suo volto incalza nella parte centrale dell’opera. Come ideogrammi, dall’alto in basso, si svolgono le sequenze di un profilo che Umberto Saba, forse, definirebbe “di capra semita”. Tracciato con un solo segno in sintesi rapida e più viva di ciò che appare nelle foto di lui.
Tutta la seconda parte di “Vita? O Teatro?” è permeata dalla sua presenza finché, dopo la partenza di Charlotte per la Francia, la memoria si placa e si dissolve con invenzioni narrative certamente mutuate dal cinema, il dialogo tra Daberlohn e l’amico scultore si svolge ancora per sequenze, ma senza le sovrapposizioni di immagine tipiche nei brani narrativi di introspezioni.
Mentre i silenzi e le parole corrono tra di loro, la scena è presentata in un susseguirsi di figure sdraiate che di poco mutano posizione, talvolta collocate due per foglio, altre volte moltiplicate, accorciate, ridotte a semplice sigla.
Questi episodi costituiscono un rallentamento nel ritmo narrativo e una messa a fuoco di momenti particolarmente intensi di riflessione, o di dialogo, o di pensieri ed emozioni persistenti, importanti per la costruzione interiore di Charlotte.
L’abbraccio, reale o sognato tra lei e Daberlohn, viene più volte raffigurato, ma quando levita nella fantasia, l’immagine evapora nell’irrealtà, fino alla ritrovata concretezza dell’ultimo abbraccio che è ormai mitico e che lei identifica con l’invadenza del dio e titola “Io e Giove”.
Alla fine del racconto, quando l’ombra della follia si insinua nella sua mente, Charlotte strazia il segno, sfalda il colore, sfonda l’allineamento delle parole. In un sussulto, scomposta da burattino, appresa la fatale successione di suicidi in famiglia, lo stesso suicidio della madre, invoca “Dio, non permettere che io impazzisca…”
Se possono venire fatti paragoni, l’autobiografismo di Charlotte può venire accostato a quello di Munch e Van Gogh, ma per l’artista ebrea la riflessione sul vissuto è meno tragica, più quotidiana e puntuale, com’è giusto che sia per una giovane donna che non può ancora raffreddare in concetto il proprio mondo affettivo.
Rimane tuttavia misteriosa la sua sicurezza nella scelta degli strumenti espressivi e la flessibilità, la sapienza del loro impegno.

La lettura di “Vita? O Teatro?” si presenta complessa: c’è la storia di una ragazza cresciuta in un clima di tragedia e di morte; c’è l’allegria di lei, il candore, l’anelito alla vita, ma se tutto ciò è motivo di pena e di orrore per l’estrema violenza che la stroncò a soli 26 anni, altrove dobbiamo cercare la grandezza di Charlotte, in ciò che mai potrà essere frainteso o strumentalizzato, ossia nel nitore di una trasfigurazione fantastica da lei stessa raggiunta al di sopra di ogni contenuto, per merito di un’intelligenza della forma intatta e potente, quale soltanto i grandi artisti posseggono. (Milano, dicembre 1990)

JENNY HOLZER

Alcuni anni fa, durante un interminabile viaggio in treno, dopo aver incontrato per la prima volta a Cassel l’opera di Jenny Holzer, per una assai misteriosa associazione mi venne in mente un idoletto cretese, la cosiddetta “Dea dei serpenti”. Come è facile immaginare non c’era nessuna apparente analogia. La misteriosa giovinetta dagli occhi bistrati era vecchia di più di tremilacinquecento anni. Corrosa dai secoli, manomessa da restauri era arrivata a noi da distanze abissali. Appunto la lontananza, di tempi e luoghi, aveva provveduto a caricarla di significati tanto più potenti quanto meno probabili. L’installazione di Jenny era tutt’altra cosa. Un modernissimo prodotto tecnologico, intatto e levigato. Tuttavia imbevuto di un qualcosa di strano, di molto antico. Un sentore di luoghi remoti su cui sarebbe stato dannoso fare chiarezza. Così come mi era apparsa in una angusta stanzetta di un grande anonimo edificio, l’opera sembrava reclamare un anello di vuoto e di silenzio. L’artista l’aveva intitolata “Lament”. Si trattava di un grande parallelepipedo di marmo lucido, simile a un sarcofago, su cui era stata incisa un’iscrizione in caratteri lapidari. Sulle pareti correvano rapide parole colorate di una cronaca spezzata: lamenti, invettive, invocazioni, sentenze. Il pensiero di una mente sconvolta registrato da un monitor. Le scritte erano realizzate col sistema del led usato normalmente per la pubblicità. Una voce femminile narrava, chiamava, evocava la storia di una madre e della sua bambina. Era un pianto antico, ma allora non era il contenuto che mi aveva impressionata quanto la sua messa in forma e, naturalmente, l’elementare evidenza di un dramma umano. Dalle gelide profondità di un mondo tecnologico, scostante, indifferente, emergeva una voce sepolta, vivissima. Come tutti i presenti venni presa alla gola da un’ansia atavica, la fobia della morte, dell’interramento. In quel momento mi ricordai della dea dei serpenti, senza una ragione. Perché mai? Per la vertigine dell’abisso, penso. E per il mistero, e perché l’opera d’arte più si circonda d’enigma, di inaccessibilità più ci penetra, ci inquieta, ci segna. Ecco, la ragazza di Creta è stata reinventata tante volte da diventare oggi l’emblema delle ansie moderne, della nostalgia di mito. Naturalmente non sarà possibile risalire alla verità storica del suo contesto, della sua nascita e per la nostra immaginazione. Questo è bene, come è bene dimenticare per un momento chi è in realtà Jenny Holzer. Dimenticare la sua ricca famiglia, l’Ohio dove è cresciuta, le scuole che ha frequentato, il suo trasferimento a New York, i centri di potere, Manhattan, il grattacielo di Trump, le banche, le società multinazionali. Dimenticare per un po’ anche il profondo, sincero impegno sociale di Jenny, la sua militanza femminista, le sue letture filosofiche, l’inconscio collettivo di Jung. E l’invasione a tutti i livelli di penetrazione dei martellanti messaggi di Jenny sui grattacieli, sulle magliette vendute a migliaia, nei metrò e negli autobus turistici, ribaditi e banalizzati, ripetuti con invasamento da predicatore e – a mio avviso – senza ombra di ironia, perché i veri artisti fanno sul serio anche quando mettono in scena l’irrisione, l’assurdo, lo scandalo. Non dimenticare queste cose per sempre, si capisce, ma finché parla l’opera e tanto da permettere a noi europei, figli di una cultura affaticata, di fasciarla con spazi di possibilità aperte, che le convinzioni, le intenzioni e la realtà di Jenny, cinquantenne americana metropolitana dal volto intenso e affilato, ci limiterebbero fatalmente.

“Si tende a ricordare bene la prima volta in cui ci si imbatte in un’opera di Jenny Holzer – dice di lei Micael Auping – sia che appaia come un lampo sul tabellone segnapunti nel Candlerstick Park di San Francisco, sia che si trovi stampata con discrezione sul retro di uno scontrino di cassa.”
A me era successo proprio questo.
Nell’estate del ’90 mi ripresero lo sbalordimento, l’affanno nel padiglione americano della quarantaquattresima Biennale di Venezia.
L’artista l’aveva totalmente trasformato sollevando gli spazi e ciò che essi contenevano al disopra della città, delle sue calli e dei suoi canali, trascurando il tipico clima snobistico del luogo e la celebrazione dei suoi rituali dedicati ai privilegi dell’intelletto.
Jenny Holzer, in quattro vani, con il massimo di concentrazione, aveva racchiuso il senso della sua vita di donna e d’artista stemperandolo nello stesso tempo nell’universale, nell’umano.
Qui, come a Cassel, non occorre essere informati che l’artista, conscia delle problematiche femministe della differenza, cerca e trova nella sua opera un linguaggio che nitidamente dichiara il genere, perché di grandiosità, di dignità femminile è intrisa tutta la sua produzione; e la qualità del filtro attraverso il quale lei guarda se stessa, il mondo, la vita è tipica, così come una forte tensione verso il mistero, la metafisica, la materializzazione. In lei esiste anche una religiosità ombreggiata, di tipo panico com’era in Frida Kahlo, Remedios Varo, Eleonora Carrington, Cindy Sherman, Barbara Kruger.
Ecco come si presentava l’installazione: alle due estremità del padiglione di forma semi-anulare c’erano due stanze in verde penombra. Cripte silenziose senza luci né colori, interamente ricoperte di marmo a parete e a pavimento. Lungo il perimetro alcune panchine tutte uguali, poste là per il visitatore che si trovava immediatamente irretito in un’azione rituale, quasi in veste di penitente. Detto per inciso, tutte le opere di Jenny Holzer sono autoritarie, impositive, categoriche.
Un giovanotto che mi stava accanto ha mormorato: “Oh Dio, sembra di essere entrati nella Divina Commedia!” ma anche lui cercava di non far rumore scivolando sulle losanghe del pavimento sontuoso inciso con scritte tolte dal momento iniziale dell’itinerario di Jenny: un’antologia di “truisms”, ossia verità sentenziose in sostanza indecifrabili o arbitrarie. Ma questo è secondario. Ciò che contava era la sensazione della terra che sprofondava richiamando medievali orrori di eterna espiazione. A pensarci questo era dato dal vuoto e dalla solitudine del centro della stanza inteso come quadrato sacro, come templum, luogo di verticali che trafiggono.
Queste due stanze erano definite luoghi di attesa, ma anche “purgatori”. Malgrado i tetri richiami, su tutto questo si sentiva aleggiare un riso infantile, qualcosa di puro, di innocente, di fantasioso.
Era forse l’attesa dell’artista che sorvegliava l’attesa del visitatore e lo spingeva verso la vera meraviglia che stava al centro, in un cuore esploso.
Si trattava di una stanza tutta di marmo come le altre, ma pulsante di vita instabile per le scritte colorate che scivolavano come l’acqua di una cascata artificiale lungo le parte e si moltiplicavano per la natura speculare dei rivestimenti tirati a lucido, dando a chi guardava un senso di lievitazione, di immaterialità, all’interno di un prodigio luminoso.

Riporto il testo inciso. Si tratta di una maternità sofferta, probabilmente un parto con taglio cesareo.
SONO INDIFFERENTE RIGUARDO ME STESSA MA NON RIGUARDO LA MIA BAMBINA. HO SEMPRE GIUSTIFICATO LA MIA INATTIVITÀ, LA MIA NONCURANZA DINNANZI AL PERICOLO PERCHÉ ERO SICURA DI ESSERE LA VITTIMA DI QUALCUN ALTRO. INDUGIAVO E GHIGNAVO IN COLPEVOLE ANTECIPAZIONE. ORA DEVO ESSERE QUI PER BADARE A LEI. PROVO A VEDERE SE RIESCO A SOPPORTARE IL SUO DOLORE. NON CI RIESCO. SONO FURBA E DISONESTA NEL PARLARE. DOVREI ESSERE LASCIATA VIVERE MA NON È COSÌ PER QUANTO RIGUARDA LEI. DOVRÀ STAR BENE PERCHÉ LA SUA MENTE NON LE OFFRIRÀ ALCUN NASCONDIGLIO SE LA MALATTIA O LA VIOLENZA LA SCOVERANNO. VOGLIO ESSERE PIÙ CHE LA SUA GUARDIA E L’AMICA DEL SUO CARNEFICE, FOTTUTA ME E FOTTUTI TUTTI VOI CHE LE FARESTE DEL MALE.

Ecco un altro testo recitato da una voce femminile.
SE IL PROCEDIMENTO INIZIA UCCIDERÒ LA BAMBINA NEL MODO GIUSTO. POTRÀ STENDERSI SULLA MIA PANCIA A LEI FAMILIARE. LE NOSTRE SCHIENE SARANNO ALLINEATE E QUINDI INDISTINGUIBILI. LA TIRERÒ GIÙ PRIMA CHE POSSA PROVARE PAURA…

Se ben ricordo il pellegrinaggio continuava, transitando attraverso una stanzetta incandescente per le undici grandi insegne led che si incrociavano e rincorrevano. I testi: apocalittiche previsioni sulla distruzione dell’uomo e del pianeta e un autodafé personale. Ogni tanto, a scadenze preordinate, la stanza piombava nell’oscurità e nel silenzio. Una parafrasi dell’annullamento totale o una concessione di pausa, di snebbiamento? O una fiction dell’infinito vuoto che sta oltre?
Anche qui Jenny punta sull’ambiguo e in tutta l’opera gioca sull’opposizione dinamica tra luce e tenebre, caldo e freddo, aggressivo e tenero, gioia e dolore, presenza e assenza, terrestrità e ascesi.
Hanno scritto molto (e anche ironizzato) sul suo fervore profetico, sulla mimica rituale, sull’insistenza del sacro in assenza del sakerdos. L’hanno accostata a sciamani illuminati come Beuys, ad intellettuali della forma come Serra, a geniali prestigiatori come Andre, ma, al di sopra di chi sia e dove provenga Jenny sta la lucida farneticazione della sua opera, l’espressività ai limiti di rottura delle sue forme, e allora, senza offendere nessuno, si pongono alcuni interrogativi che non riguardano soltanto lei ma toccano l’arte in generale.
Ci si chiede cioè se l’arte intesa come pura elaborazione di forme, quando venga privata della facoltà unica di affidare a potenti simbologie il sentimento del vivere nella concretezza dell’accadimento quotidiano sia utile a qualcosa, e a che serva la parola estetica e il puro esercizio di intelligenza se non si compromette con l’ordinario, il banale. Nella penombra di queste domande l’opera di Jenny guadagna in solidità, coraggio, fascino, e inoltre serve a sottolineare un filo conduttore che unisce, in una analoga ricerca di identità, per un parallelo guadagno di autenticità e indipendenza, artiste donne solo apparentemente dissimili che da Charlotte Salomon, attraverso Paula Becker, Kate Kollowitz, Germaine Richier e altre ancora, si tendono l’una all’altra la mano.

MARIA LASSNIG, GINA PANE E GENEVIÈVE CADIEUX: CORPI STRUMENTO ESPRESSIVO

D. BASSI, testo per convegno “CORPI HARDWARE, CORPI SOFTWARE, CORPI PACHAGE, CORPI TRASH”, D.A.R.S, Udine 1995

Dal corpo rappresentato al corpo assunto come strumento espressivo, fino alla cancellazione e all’amplificazione del suo negativo, alla vacuità assoluta della sua assenza. Tra i percorsi possibili e praticati da donne artiste del nostro tempo ho cercato di segnare dei tracciati, non in base allo stile o ai contenuti, ma per analogie creative e comportamentali, non sempre volute o ammesse dalle stesse artiste, ma tali da suggerire comunque possibili sistemazioni delle loro opere in filoni distinti. Era quanto le più note artiste del secolo scorso – O’Keeffe, Tanning, Fini, tanto per fare dei nomi – temevano e aborrivano, trovando raccapricciante il solo pensiero di classifiche riservate alle donne, ma i tempi ora sono maturi per una riesamina di fenomeni che possono essere inseriti in una cultura che ha trovato la propria identità. Meno importa l’inserimento di molte di queste artiste nelle correnti dell’arte contemporanea e più importa rintracciare in un percorso critico trasversale le loro posizioni, l’ autonoma visione del mondo. Che è, ovviamente, visione femminile. Tra la Kahlo e Georgia O’Keeffe, artiste ormai remote, e Maria Lassnig, Gina Pane, Genevieve Cadieux, scorre mezzo secolo di turbolenze nel campo dell’arte e quindi non esiste continuità formale tra i loro operati, tuttavia, ognuna nei propri ambiti, ha insinuato una luce particolare, di qualità inconfondibile, qualcosa che le isola e distingue, e sarebbe assurdo negare che tale qualità di luce sia estranea alla loro femminilità.
L’occasione di questo abbozzo di studio mi è stata offerta dal tema del convegno che lancia la questione della rappresentazione del corpo. L’arte è pensiero per immagini, visualizzazione, quindi ciò che può considerarsi pertinente è il modo di porsi in rapporto non tanto con i singoli corpi, quanto con la corporeità in generale. Non si parla della concretezza, della corporeità degli oggetti, siano essi fisici o soltanto mentali, ma della proiezione, della percezione del proprio corpo in base a ciò che ho chiamato “convivenza coatta”, come esperienza ininterrotta con l’involucro che contiene la ricchezza del mondo psichico, affettivo di ogni individuo, con tutte le conflittualità che questa convivenza quotidianamente comporta.
Nella apparente diversità delle scelte espressive di queste artiste che presento, si avverte subito una comune tendenza a respingere la carnalità e quanto di appagante, giocoso, liberatorio la piena accettazione di essa può portare. Il corpo insomma è considerato un contenitore assegnato, un luogo dove si raccolgono i simboli, uno strumento relazionale tra il sé e l’altro, un apparecchio veicolante concezioni del vivere sociale. L’ostentazione del sesso non esiste, viene evitato l’aspetto seduttivo, la potenzialità generativa è trascurata, almeno come forma di potere. Queste considerazioni valgono anche per artiste – Carrington, Fini, Varo, Marisol, Saint Phalle, Richier, Burgeois – che hanno trattato il tema del corpo e che non presento in questa occasione.

Essenzialmente il corpo è inteso come recinto di solitudine nel quale si consuma un perenne desiderio di fuga. Si avverte il senso di esserci, il dovere di esserci, quindi anche se la spiritualizzazione è elevata, non si arriva a spinte anagogiche, come attraverso scansioni di tempo, mai per aggressione istantanea e diretta. Molte artiste si impongono avvicinamenti graduali, guidati dal ritmo, regolati dalla serialità. Osserverete la disposizione di immagini della Pane e il valore del tempo nei suoi rituali di autolesione. In quasi tutte le artiste che presento – O’Keeffe, Kahlo, Pane – è presente e diffusa una religiosità che impone l’accettazione del mistero come componente essenziale del vivere. Si avverte come un dolore di esilio da un destino che non travalica i confini della vita terrena. La O’Keeffe, con molta coerenza, ha reso una religiosità di tipo panico chiave d’accesso alle leggi della natura. L’opera intera di Frida Kalho è ostentazione di sofferenza come distinzione di privilegio entro le gerarchie tradizionali della religiosità popolare. La Pane identifica nel dolore fisico, reso spettacolo dal sangue, un supremo atto d’amore verso l’altro, al fine ultimo di fusione tra amore e morte.

Anche l’opera di Gina Pane può essere inserita in una corrente, quella della Body Art, con tutti i riti sacrificali, la profusione di sangue e i feticci. Tuttavia, come è stato per Kahlo e O’Keeffe, si forma una fascia di isolamento e di rispetto per il magnetismo che lei stessa emana. Purezza e silenzio, tipici della ritualità religiosa, un senso di fatalità, di ineluttabilità accompagnano il lento ritmo delle performances. Pane, vestita di bianco, in bianche scenografie produce lesioni al proprio corpo con aghi, lamette, schegge di vetro facendo colare il sangue sulle sue vesti. Nello stesso modo il sangue scorreva lungo la schiena, il collo, gli abiti di Frida Kahlo. La rappresentazione del sacrificio di Frida diventa azione diretta in Gina; oggetto di violenza la prima, soggetto auto-distruttivo la seconda, ma entrambe, si dice, per forza d’amore. In tutte e due queste artiste c’è un forte senso di spettacolarità. Cos’è il corpo per Gina Pane? Lasciamolo dire a lei stessa “È il nucleo irriducibile dell’essere umano, la sua parte più fragile. È sempre stata tale, sotto tutti i sistemi sociali, in qualsiasi momento della storia. E la ferita è la memoria del corpo, essa memorizza la sua fragilità, il suo dolore, dunque la sua esistenza reale.”
Così scriveva negli anni settanta. Dunque il corpo è di per sé una struttura, un sistema di segni. Il dolore procurato dalle ferite viene compensato dalla conquista dell’attenzione dell’altro, finalmente catturato, e questa felicità nella regressione infantile viene ampliata, protratta dai giocattoli di cui spesso ama attorniarsi. Queste azioni finirono per esaurirsi negli anni settanta. Da attore diventa allora lei stessa spettatore di sé e l’utilizzo di un nuovo processo la porta alla scoperta di rimandi, di analogie che ampliano il significato delle passate auto-lesioni fino a farla penetrare nelle vite dei santi (San Sebastiano, San Francesco, San Pietro), nel martirio dei loro corpi per scoprirne la forza misteriosa. “Ciò che mi interessa è il rapporto tra la fragilità di quella carne e la forza immateriale che lo abita. Mi interessa la strada, il cammino per arrivare a questo. Non mi interessa fare dell’agiografia… Diventare un uomo è già un atto religioso. O si pensa come Nietzsche che dio non esiste o si pensa che dio esiste, che è scritto nella nostra vita.” In una delle ultime azioni (1974) la Pane incide sul suo ventre una croce, come archetipo essenziale dei rapporti tra sé e l’altro. Certo, dobbiamo dire che l’opera di Gina ha come complemento il coinvolgimento dell’altro, del pubblico. È dedizione, disvelamento fino alla fuoriuscita del sangue.

Maria Lassnig è un caso a parte. Innestata nel filone espressionista, con precedenti come Kirchner, Nolde, Paula Becker-Modersohn, ha inseguito in piena epoca concettuale, e sopportando per molti anni il disinteresse e l’impopolarità, una ideologia di partenza portata alle estreme conseguenze. La velleità, l’arroganza dell’essere umano erano i temi della rabbia e della condanna espressionista che elesse la formazione dei corpi, la sgradevolezza delle forme e del colore come strumento di demolizione di ogni illusione. La Lassnig, nonostante un lungo soggiorno negli Stati Uniti negli anni settanta, passò indenne attraverso Informale, Pop Art, Concettuale, svolgendo radicalmente e con coerenza una ricerca di identità nello spirito di auto-conoscenza e autodeterminazione, metodologia tipica del femminismo riflessivo. Attraverso un’ insistente pratica dell’autoritratto mise a punto un suo linguaggio molto spoglio, molto semplificato, indifferente alla datazione che colpiva in quegli anni l’espressionismo in generale e penalizzava il dipingere stesso, il raggiungimento del prodotto mercificabile. La conseguenza di tanto lavoro ingrato e solitario è stata la tenuta del rapporto vita psichica- espressione. L’approdo è sconcertante. I corpi trattati in base alla conoscenza, o meglio alla percezione di sé, sono ammassi contorti e informi di materia viscerale, privi di logica e di struttura, al di fuori di ogni giudizio. L’identificazione è impossibile e quindi l’identità non sarà mai raggiunta. Non è raggiunta nemmeno la collocazione nell’ambiente, nemmeno nello spazio. I corpi della Lassnig sono trash, sono da buttare. Questa artista perviene a conclusioni decisamente pessimistiche per vie che appena tangenzialmente la avvicinano alle altre artiste di cui stiamo parlando. La sua appare invece quasi una liquidazione categorica di qualsiasi tentativo di emersione dal caos della nostra vita interiore, che è totale smarrimento.
Lassing in fondo apre la strada a Lupertz, Fettina, Immendorf, Polke, Koons, perché inverte le forze dell’espressionismo. I colori sono più fluidi, trasparenti, morbidi e morbidamente impongono deformazioni insopportabili. La dicotomia tra forma e contenuto è da lei accettata come principio, e affermata nella pratica della pittura. Qualcosa di simile in Bacon. Gli storici e i critici se ne dimenticano: la storia è ingiusta, anzi, iniqua.

Analoga sorveglianza è esercitata da un’altra artista che opera sul piano della concettualità, dell’utilizzo e dominio del corpo e in genere della corporeità, Geneviève Cadieux. Ma con una sostanziale differenza rispetto a Pane e Lassnig: in Cadieux l’altro viene chiamato nell’opera non come ricevente, relatore emozionale, ma come parte attiva.
La riflessione di Cadieux sul corpo, sull’ambiguità delle relazioni, sugli impulsi di possesso attraverso l’amore perennemente frustrati, sullo stato di incertezza, sul vacillare delle percezioni, sembra rivolta soltanto al vivere e per questo il discorso- le immagini in questo caso- arriva a noi più duro, gelido, disincantato. I riferimenti della Cadieux a Lacan, Barthes, sono espliciti e forniscono talvolta agevoli chiavi di lettura alla sua opera. L’artista lavora unicamente con immagini fotografiche stampate su materiale specchiante, le installazioni si fronteggiano, attivano campi magnetici e, trattandosi in genere di gigantografie, condizionano e animano gli spazi che le ricevono. Il fascino di queste opere sta nell’ambiguità, quindi nell’apertura a molteplici soluzioni, nella fervida e mobile rete di relazioni con l’ambiente e con chi interferisce con questi campi energetici. Le perturbazioni della visione, potenziate, mettono insomma in moto meccanismi psicologici che la Cadieux, diversamente da O’Keeffe e Gina Pane, sfrutta introducendoli nella trama espressiva. Faccio un esempio: il corpo non è mai intero, alcune parti fondamentali – il volto, il sesso- vengono cancellate, oscurate da patine e inchiostri, altre disturbate da spot o superfici specchianti. Gli accostamenti tra un’immagine e l’altra sono ermetici e le analogie che legano queste icone obbediscono a strutture mentali che appartengono all’autrice e che tutt’al più si possono ipotizzare. Anche la Pane mantiene il segreto, specialmente quando il motivo portante si riferisce a santi e ai loro martiri. Per questo incontrando con gli occhi le immagini della Cadieux, assieme alle nozioni ovvie che questi suoi volti, questi suoi corpi, ci forniscono, ci si chiede sempre che cosa sta dietro, che cosa manca e perché, a chi appartengono. Nel caso di frammenti ci si chiede a quale parte del corpo le foto si riferiscano, il perché delle cicatrici. Insomma il frammento, la veduta oscillante e parziale insinuano un senso di smarrimento, di insoddisfazione. Questo è l’effetto gap a cui spesso, parlando della sua opera si allude. Il termine è stato utilizzato da Lacan e significa pressappoco vuoto, mancanza. Termine intraducibile, che Lacan sommariamente definisce “l’ombelico dei sogni.” Dunque la cancellazione di ogni elemento che consenta di riconoscere l’identità del soggetto mette in crisi chi guarda, privandolo dell’appagamento. Questo turbamento provoca quell’angoscia di castrazione di cui tanto parla Freud. Per questa ragione le numerose trappole che la Cadieux dissemina lungo il percorso delle sue installazioni finiscono con impegnare totalmente il visitatore, distraendolo da ciò che alla fine è sempre stato considerato lo scopo dell’arte, cioè la bellezza delle immagini. Penso che questa autrice abbia anche il merito di rendere forti e chiari sia le strategie che i metodi del concettuale e di metterli in atto con una esemplare radicalità.